Teatro di San Carlo, 4 novembre 1737, inaugurazione: Achille in Sciro di Domenico Sarro, su libretto di Pietro Metastasio, scene di Pietro Righini e due balli di intermezzo creati da Gaetano Grossatesta

“Vi era accorso di persone distinte un incredibile numero; si videro tutti i palchi riempiuti di dame, adorne di ricchissimi abiti e di preziosissime gemme, come altresì i cavalieri in abiti sfarzosissima gala, ad oggetto di appalesare in sì gioiosa congiuntura l’interno giubilo loro”                                                                                               (La Gazzetta di Napoli 5 novembre 1737).

 

Carlo di Borbone, pose grande attenzione alla preparazione della prima stagione teatrale inaugurale del nuovo teatro da lui voluto. Si decise che tutti e tre i libretti delle opere rappresentate, dovevano essere del Metastasio, poiché, come scritto dall’Uditore dell’esercito nel marzo del 1737:

non è dubbio che tra i poeti i quali nel secolo, presente fioriscono nella composizione dei drammi, il più concettoso e che il carattere dei finti sovrani e delle parti eroiche meglio vesta e fornisca, egli è il rinomato Pietro abate Metastasio,che, sebbene sotto altro rimoto cielo soggiorni, nulladimeno in questa capitale, dove principalmente le scienze apprese, può dirsi sia ancora tra noi, per rapporto alle sue opere che da tempo in tempo, si son qui sparse e provengano”.

Il nuovo tempio della arte lirica, sostituiva il vecchio "San Bartolomeo", ormai inadatto al fasto di una Capitale come Napoli, anche se il Monarca non amava la musica. Anzi secondo la testimonianza del De Brosses, aveva l'abitudine di chiacchierare durante lo spettacolo o di schiacciare addirittura un sonnellino.

Come musicisti, furono scelti: Domenico Sarro, descritto quale “uomo molto sperimentato”, Leonardo Leo e Nicola Porpora, che da anni dimorava lontano dalla patria, poiché chiamato nei principali teatri d’Europa, e sebbene le opere da lui musicate e rappresentate a Napoli, in giovine età, non erano state accolte con grande plauso, proprio per la sua permanenza all’estero doveva ritenersi migliorato.

La prima opera, fu commissionata a Domenico Sarro, compositore molto affermato ed apprezzato dell’epoca: il Primo Maestro della Real Cappella, succeduto a Francesco Mancini. Il quasi sessantenne musicista, nato a Trani nel 1679, apparteneva alla schiera di musicisti che dalla lontana Puglia si erano trasferiti a Napoli per studiare in uno dei quattro celebri conservatori di musica napoletani, diventando importante ed autorevole come Leonardo Leo. Allievo di Angelo Durante, al Conservatorio si S. Onofrio a Capuana, aveva iniziato la sua intensa attività di compositore già nel 1704.

 

 

Si scelse come giorno dell’inaugurazione proprio il 4 novembre, dedicato a San Carlo, quindi onomastico del grande sovrano

 Il teatro risplendeva in tutta la sua bellezza, e come descritto dai cronisti dell’epoca,  nei cinque palchi a destra e nei cinque di sinistra del palco reale si affollava la corte di re Carlo, e seguivano dall’un lato e dall’altro i palchi del cardinale Acquaviva di Aragona, del principe di Francavilla, del duca di Maddaloni, del principe di Stigliano, del principe di Avellino, del principe della Riccia, del duca di Belcastro, e via discorrendo, in modo che si vedeva intorno al nuovo re, disposta come in solenne rassegna, tutta la nobiltà dell’antico Reame.

La rappresentazione cominciava con un prologo, nel quale innanzi al Genio reale, si presentavano la Magnificenza, la Gloria e la Celerità, e la prima diceva

 

Genio real, di già compita è l’opra,

che seppe concepir tua vasta idea:

 

ecco il nuovo, sublime, ampio teatro,

 

di cui più vasto d’Europa ancor non vide …

 

e la Celerità vantava a ragione che:

appena

 

sette volte nel cielo

 

della luce non sua

 

Cintia comparve d’ogni intorno adorna,

 

che da profondi abissi,

 

eguale al mare, alzossi l’alta Mole

 

a contrastar con la ragione del Sole:

 

ed il Tempo fugace,

 

padre dell’opra stessa,

 

mentre, l’ampio edificio eretto vede,

 

fra i suoi stupori involto, appena crede.

 

 

 

L’Achille in Sciro, era già stato musicato l’anno precedente a Vienna dal compositore veneziano Antonio Caldara.

 

Ispirata da pura fantasia l’opera metastasiana, si volge interamente all’interno della reggia di Licomede, nell’isola di Sciro.

Achille vive nascosto sotto abiti femminili e custodito dal tutore Nearco, cui la madre Tetide lo ha affidato per evitargli di andare in guerra. L'eroe si è innamorato di Deidamia, figlia del re dell'isola Licomede; questi nulla sa del vero sesso del giovane che gli si presenta come Pirra ancella di Deidamia. Giunge però Ulisse mandato dai Greci a controllare una voce secondo la quale Achille è nascosto a Sciro. L'astuto eroe non tarda a comprendere la verità dai rossori e dagli entusiasmi a stento frenati da Pirra/Achille al sentir parlare di armi e guerre. Con uno stratagemma egli offer al re un banchetto in cui regala un buon numero di armi e provoca una furiosa rissa: Achille non si trattiene e rivela il suo stato. Ulisse sta per ricondurlo in patria sulle navi, ma è allora che Deidamia a trattenere il suo amato implorandolo di non abbandonarla perché non abbia a morire di dolore. Achille non resiste al suo amore e sta per abbandonare la gloria, ma il re Licomede, informato di tutto gli promette la mano della figlia al suo ritorno vittorioso dalla guerra di Troia. 

 

Gli interpreti.

 

Achille, contralto, Vittoria Tesi (detta la Moretta)

 

Arcade, soprano, Giovanni Manzuoli (detto Succianoccioli)

 

Deidamia, soprano, Anna Maria Peruzzi ( detta la Parrucchierina)

 

Licomede, tenore, Cristofano Rossi

 

Nearco, contralto, Agata Elmi

 

Teagene, soprano, Mariano Niccolini (detto Mariannino)

 

Ulisse, tenore, Angelo Amorevoli

 

Nella prima rappresentazione dell' opera, cantarono alcuni dei più celebri cantanti del momento: quale prima donna la scelta ricadde su Anna Peruzzi, detta la Parrucchierina. La parte di primo uomo, Achille, era interpretata “en travesti”,  invece che da un castrato secondo la tradizione, da una donna, la Tesi, cantante nota a Napoli, avendo partecipato a molte rappresentazioni teatrali al Teatro San Bartolomeo. Vittoria Tesi Tramontini, una delle maggiori cantati del suo tempo, era uscita dalla scuola di Francesco Redi a Firenze, ed ebbe fama pari a quella della Romanina, di Faustina Bordoni e della Aguiari. La scelta del tenore, ricadde su Angelo Amorevoli o Amorevolo, protagonista di un romanzo di Giuseppe Rovani “Cento anni”, che a suo dire per la dolcezza del suo canto ed il gusto raffinato, face sperare che col tempo si potesse fare a meno dei castrati. Poi era presente il celebre castrato Mariano Niccolini detto Marianino e Giovanni Manzuoli.

 

La parte di Achille “en travesti” fu una scelta strategica: giacche la Peruzzi non voleva tollerare accanto a sé un’altra prima donna, fu persuasa dal fatto che la Tesi sosteneva la parte di Achille e sebbene comparisse vestito da donna, era un uomo, poichè la parte doveva essere rappresentata da “persona di piena voce, di competente alta statura e di proporzioni di spirito, onde nell’agire sia sollecita ed ardente”. La Tesi, la cui figura spiccava per imponenza, e non lei, la Peruzzi che sebbene “virtuosissima cantatrice soprana”, non aveva “voce di molto corpo ed era di statura piccola” Tanto piccola che il "Tanucci", molti anni dopo ricordava “la celebre pel canto, ma piccolissima Parrucchiera, della quale dicevano gli uomini vaghi di femmine, che la Parrucchiera se ne andava in nettature”.

 

 

Il dramma, Achille in Sciro, era diviso in tre atti:

 

Atto I, 15 scene

 

Atto II, 12 scene.

 

Atto III, 9 scene.

 

L’Ouverture, chiamata "introduzzione", ritmicamente vivace ed abilmente costruita, si riesce ad avvertire un simpatico sapore vivaldiano.

 

La prima scena, opera del più celebre coreografo di quei tempi Pietro Righini, rappresentava l’interno del tempio di Bacco, circondato da portici, che prolungandosi, formavano una piazza. Si vedevano due spaziose scene. Tra le distanze delle colonne dei portici si scorgeva da una lato, il bosco sacro al dio, dall’altro la marina di Sciro. Questo inizio era particolarmente indicato per dare un colpo d’occhio del grandioso sfondo del palcoscenico.

Il coro di baccanti cominciò:

 

Ah, di tue lodi il suono,

 

padre Lieo, discendi;

 

ah, le nostre alme accendi

 

del sacro tuo furor!

 

E vennero innanzi Anna Peruzzi”Deidamia”, e Vittoria Tesi “Achille”; e Deidamia palpitò a scorgere da lungi apparire le navi che revano Ulisse: “Oh dei! Vien meco!”. “Di che temi, mia vita? Achille è teco!”.

 

 

L’opera si concludeva con grande fasto scenico e durante il coro finale la scena riempiendosi  a poco a poco di dense nuvole, si apriva, facevando scoprire all’occhio dello spettatore il tempio della gloria tutto adornato “dei simulacri di coloro che ella rese immortali”. Apparivano in aria al tempio, la Gloria, Amore ed il Tempo, circondati da numerose schiere di loro seguaci.

 

Composta da un succedersi vario di recitativi ed arie, recitativo secco, vale a dire parlato e musicalmente inespressivo, secondo un semplicistico procedimento di modulazioni che costruiva una formula. Mentre l' aria era un pezzo melodico di struttura strofica, con riprese e varianti in altre tonalità, accompagnata da strumenti ad arco con l’impiego di fiati che al tempo di Sarro erano più frequentemente corni o trombe da caccia ed oboi.

 

Nell’Achille in Sciro, abbondano virtuosmi vocali e vocalizzi, esempi sono nell’aria di Teagene: Disse il ver parlò per gioco,(II, sc.13) nell’aria di Ulisse: Fra l’ombre un lampo, (I sc.6), nell’aria di Deidamia: Del sen gli ardori (I sc. 14).

 

Si apprezza in particolare l’aria di Achille con coro: Se un core annodi, (II,8), in cui l’eroe, che sulla scena imbraccia la cetra, viene accompagnato dal timbro argentino di un mandolino solista, con efficace contrasto rispetto all’imponente ritornello, in cui entra il coro con l’orchestra piena.

 

L’orchestra organizzata dal Sarro, era composta da 45 esecutori così suddivisi: 24 violini, 6 violette, 3 violoncelli, 3 contrabbassi, 2 cembali, 2 oboi, 3 fagotti, 2 trombe. Al primo cembalo, secondo la prassi dell’epoca sedeva l’autore, ma solo per le prime esecuzioni, poi la direzione era affidata al primo violino.

 

Domenico Sarro da musicista esperto, confeziona un prodotto osservante e rispettoso delle consuetudini dell’epoca, un’opera di mestiere, non del tutto priva di interesse, dove i punti di forza sono soprattutto i lunghi recitati e le arie con il da capo che si susseguono con intrigante continuità, ed in cui si rispecchiano gli autori a lui contemporanei.

 

Al Sarro vennero pagati, con apposita polizza emessa nel Dicembre del 1737, 220 ducati «in soddisfazione della composizione del prologo ed opera in musica intitolata Achille in Sciro che si è rappresentata nel Teatro Reale di San Carlo il dì 4 Novembre prossimo passato».

 

 

La leggenda:

L’ammirazione che destò il nuovo teatro, costruito in così breve tempo da sembrare un miracolo, dovè dar origine alla leggenda, narrata dal Colletta: il Re, lodando in pubblico la sera dell’inaugurazione il Carasale, notò che “sarebbe stato maggior comodo della regal famiglia passare dall’uno all’altro edifizio per cammino interno”; e il Carasale abbassò gli occhi, ma, al termine dello spettacolo, si ripresentò all’uscita del palco, pregando il re di “rendersi alla reggia per interno passaggio da lui bramato”.

“In tre ore, abbattendo mura grossissime, formando ponti e scale di travi e legni, coprendo con tappeti ed arazzi la ruvidezza del lavoro, con panneggi, cristalli e lumi, l’architetto fece bello e scenico quel cammino: spettacolo quasi direi più del primo lieto e magico per il re”.

 

L'episodio narrato dal Colletta raccontato dal commendatore Salvatore Papaccio, direttore di palcoscenico del Teatro di San Carlo e famoso tenore.

 

L’orchestra del Real Teatro di San Carlo.

 

L’orchestra che la sera del 4 novembre 1737 si esibì nel nuovo teatro costruito per dare lustro a Napoli, sicuramente fu in parte ereditata dal vecchio San Bartolomeo ed integrata con nuovi elementi scelti per la serata.

 

Qui riporto una “Nota delle persone che devono suonare gl’istrumenti nel nuovo Teatro (11 ottobre 1737).

 

24 violini: Domenico de Matteis, Domenico Salernitano, Giuseppe Salernitano, Nicola Fiorenza, Michele Guarino, Aniello Santangelo, Crescenzo Sepe, Nicola Sabatino, Nicola Vitolo, Costantino Roberto, Cesare Iengo, Giuseppe Magrini, Francesco PaPaciotti, Saverio Carcais, Andrea Marra, Vito Malemme, Benedetto Breglia, Saverio Capriola, Giuseppe Romano, Domenico de Micco, Angelo Zaccaria, Giuseppe Stracchino, Gennaro Catalisano, Nicola Tedesco.

 

6 violette: Carl’Antonio Giannassi, Paolo Canonico, Aniello Recena, Gregorio Sauro, Giuseppe Orgitano, Francesco di Gennaro.

 

3 violoncelli: Giacomo Vittozzi, Francesco Giampriamo, Francesco Persico.

 

3 contrabassi: Gioacchino Bruno, Andrea Florio, Francesco de Vita.

 

2 cembali: Antonio Palella, Giovanni Fischietti.

 

2 oboi: Antonio Besozzi, Francesco Cervone.

 

3 fagotti: Francesco Izzarelli, Antonio Zinzio, Giuseppe Narciso.

 

2 trombe: Cesare Biancone, Girolamo Piano.

 

In tutto 45 elementi che costarono al regio erario per le opere programmate di quella prima stagione, 2086 ducati.

 

La principale caratteristica dell’orchestra sancarliana era nella disposizione dei due cembali, due spinettoni di forma rettangolare di cui solo il primo fornito di doppio registro. Guardando la platea il primo cembalo era in fondo a sinistra, il secondo in fondo a destra. Al rpimo cembalo sedeva di solito il compositore dell’opera nelle prime treo quattro rappresentazioni e nelle repliche successive da un maestro di cappella appositamente stipendiato. Questi aveva alle spalle un violoncello ed un contrabbasso ed accanto il Primo Violino, il quale era il vero direttore d’orchestra.

 

 

Il primo violino del Real Teatro di San Carlo: Domenico Matteis.

 

Fu scelto come primo violino dell’orchestra del Real Teatro di San Carlo, il maestro Domenico de Matteis, che resse la carica dal 1737 al 1758. Nato a Napoli il 30 giugno 1686, da Giovan Battista e Porzia d’Amato, fu allievo di Gaetano Greco al Conservatorio dei Poveri di Gesù Cristo e divenne a sua volta maestro di violino nello stesso Conservatorio, dove rimase ad insegnare per circa trent’anni, e tra i suoi allievi si ricorda anche Pergolesi. Nel 1727 entrò a far parte della Real Cappella . Morì a Napoli il 3 marzo 1758.

 

Da una nota del 1742: “ Don Domenico de Matteis, è rpimo violino di S. Carlo, di molto merito, e per le pioggie e tempi freddi potendo, nel decorso dell’opere, soggiacere ad infermità con discapito dell’orchestra, qualora non abbia comodo per ritirarsi, finita l’opera, in casa sua, gli viene accordato un aumento, perché possa prendersi ogni sera detto commodo”.

 

 

Biografie degli interpreti:

 

Vittoria Tesi Tramontini, (Firenze 1700 – Vienna 1775), contralto italiano.

 

Nota con il soprannome di “la moretta”, crebbe all’ombra della corte medicea. Studiò canto a Firenze con F. Redi e debuttò al Ducale di Parma nel 1716.  Nel 1718 divenne virtuosa di camera del Duca di Parma. Dotata di una voce robusta, di uno splendido grave e di una notevole estensione, si specializzò nei ruoli maschili, diventando una delle cantanti più pagate del suo tempo, anche se non brillava tanto per il suo virtuosismo quanto per la naturalezza della recitazione. Nel 1719 cantò a Dresda, poi forse in Polonia e dal 1721 di nuovo in Italia, a Venezia, Napoli, Milano, Bologna, Firenze, al fianco di altrettanti celebri cantanti quali Farinelli, Caffarelli, la Cuzzoni. Nel 1739 fu ospite presso la Corte di Filippo V in Spagna. Nel 1747 si trasferì a Vienna ma tre anni dopo si ritirò dalle scene per dedicarsi all’attività di insegnamento, presso corte della contessa Maria Theresia Ahlefeldt annoverando tra i suoi allievi Caterina Gabrielli ed Elisabeth Teyber. Controverse furono le critiche mosse alla Tesi, Gluck, nel 1748 assistendo alla sua opera, Semiramide riconosciuta, ascoltando nel ruolo principale, apprezzò finalmente la Tesi che prima aveva sprezzantemente definito una grandissima nullità, mentre Ange e Sarah Goudar, nelle loro "lettere" critiche sul teatro italiano pubblicate a partire dal 1773, la definirono "forse la prima attrice che recitava bene pur cantando male", invece sia Charles Burney  sia Johann Joachim Quantz lodarono il suo talento di attrice.

 

 

Vittoria Tesi Tramontini, in una caricatura ed il suo testamento.

 

Anna Maria Nelli Peruzzi, detta la Parrucchierina. (Bologna fine del seicento- dopo 1739), soprano italiano.

 

Nacque a Bologna verso la fine del seicento, come Anna Maria Nelli e nel 1715 sposò il cantante lirico Antonio Peruzzi. Cantante a sua volta, abile soprano, faceva la tipica vita d’artista, sempre in tournée, richiamata dai più importanti teatri italiani. Una volta, mentre tornava da una esibizione a Brescia, giunta nei pressi di Goito, la carrozza su cui viaggiava accompagnata dalla madre, venne assalita da sei uomini armati fino ai denti che avevano avuto l’incarico di rapirla. Questi bravi, erano stati mandati a quanto risulta da un signorotto bresciano che aveva  ammirato la cantante bolognese a teatro e se ne era follemente invaghito. La spedizione falli, perché il cocchiere incalzò i cavalli e riuscì a portare in salvo le due donne nella vicina Zurlingo, nel Mantovano.  Da qui la Parrucchierina, che doveva probabilmente il suo soprannome alla particolarità delle sue acconciature, venne poi fatta scortare da soldati prima a Mantova e poi a Ferrara. Questo grazie all’interessamento del principe di Darmstadt, governatore della città di Virgilio. Anna Maria aveva atteggiamenti capricciosi tipici delle star dell’epoca: si rifiutò di andare a cantare a Milano perché non le avevano offerto il ruolo di prima donna, lei che era la pupilla della principessa ereditaria di Modena e si esibiva di abitudine nei migliori teatri di Venezia. Pur essendo piccolina e non di eccezionale bellezza, Anna Maria invece incantava gli uomini con la sua voce ovunque avessero modo di vederla. Una volta, dopo essersi esibita al Formagliari di Bologna nell’Alessandro nelle Indie, si vide recapitare un anello di diamanti e cinquanta zecchini dal duca di Soria, suo ammiratore. Una delle serate memorabili per la cantante fu quella della rappresentazione del Siroe re di Persia del Metastasio, andata in scena nella sua città al teatro Malvezzi, nella primavera del 1733, che le fruttò un onorario di 1200 lire. Con le sul palco c’era anche la Tesi, oltre al Farinelli ed al Caffarelli celebri cantanti evirati, tutto il gotha del bel canto dell’epoca. Non è noto se si sia mai esibita con il marito, il quale viaggiava per lunghi periodi e rimase per anni a Praga con la sua compagnia alla corte del conte di Sporck noto mecenate. Di certo guadagnò parecchio con il proprio lavoro e nel 1730 ebbe modo di comprare e ristrutturare una casa in Via Santo Stefano. Qui probabilmente morì, in una data imprecisata successiva al 1739, anno fino al quale il suo nome ebbe risonanza artistica.

 

 

 

 

Angelo Amorevoli o Amorevolo, (Venezia 1716 – Dresda 1798), tenore italiano.

 

Si può considerare il primo tenore italiano mitico o meglio mitizzato. Luigi Rovani ne fece infatti un personaggio del suo fluviale romanzo Cento anni (1857-64). Incorse però in una falsificazione, attribuendo ad Amorevoli il fascino dei grandi tenori dell’era romantica: tombeur de fammes come uomo, voce argentina, estesissima, squillantissima come cantante. Di fatto, della vita privata di Amorevoli nunna si conosce, mentre del cantante si sa invece che nulla aveva del tenore romantico. Amorevoli fu un ragazzo precoce, poiché già nel 1730, quattordicenne, cantava al San Samuele di Venezia, nella parte di Ottone nella Dalisa di Hasse, in prima esecuzione. Nell’autunno seguente fu protagonista al Sant’Angelo di Venezia, dell’Annibale di Porpora, sempre in prima esecuzione, passando poi al Ducale di Milano, dove fu scritturato fino al 1734. Dopo essere ricomparso a Venezia nel 1735-36, esordì al San Bartolomeo di Napoli e poi partecipò alla inaugurazione del Teatro di San Carlo. Qui si esibì nel 1738 come protagonista nell’Artaserse di Vinci. Dopo altre scritture a Venezia, Napoli e Torino, dal 1741 al 1743, Amorevoli fu al King’s Theatre in Haymarket di Londra, allora diretto da Galuppi, di cui interpretò varie opere, tra cui Penelope e Scipione in Cartagine. Tornò al Ducale di Milina nel 1744-45 e a partire dall’autunno 1745, fu scritturato a Dresda, dove prese parte a molte riprese e prime esecuzioni di Hasse. Tra il 1746 e il 1761 fu più volte riascoltato a Milano, mentre nel 1748 riscosse un grande successo a Vienna nella Semiramide riconosciuta di Gluck. Stabilitosi definitivamente a Dresda, dal 1764 in poi si ritirò dalle scene, producendosi soltanto in esecuzioni di musica sacra e da camera. Una curiosità i  compensi corrisposti all'Amorevoli nel 1756 dal Hofoper di Dresda ammontavano alla cospicua cifra di 2800 talleri annui, superiore alla normale retribuzione dei "virtuosi" dell'epoca ed in età avanzata, si vide riconfermata la scrittura per esecuzioni da camera e da chiesa, con il compenso annuo di 1.000 talleri, confermando l’importanza che all’epoca ricopriva nel panorama lirico.

 

 

 

 

Giovanni Manzoli o Manzuoli detto Succianoccioli (Firenze 1720 o 1725-1782), sopranista italiano.

 

Dopo essersi fatto apprezzare in Italia, passò in Spagna e poi in Inghilterra, entusiasmando il pubblico con la dolcezza del suo canto espressivo che si contrapponeva a quello fiorito di altri famosi sopranisti dell’epoca. Scrisse di lui, Charles Burney: “Quella di Manzuoli era la più potente e voluminosa voce di soprano mai udita sui nostri palcoscenici dai tempi di Farinelli e il suo stile di canto pieno di gusto e dignità”.

 

 

 

Il libretto